Marco Petrus | Federico Bucci, Un atlante architettonico
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Federico Bucci, Un atlante architettonico

in Atlas, Johan&Levi editore, Monza 2014

Vorrei scusarmi di parlarvi di Petrus, poiché in realtà io non sono uno specialista di pittura, per cui è da profano che vi parlerò. Dunque, prima che il lettore abbia il tempo di avanzare qualche legittimo sospetto di plagio, relativamente all’incipit di queste personalissime note di commento all’Atlas di Marco Petrus, confesso subito di aver parafrasato qualche riga di uno straordinario libro sulla pittura moderna, quello che Michel Foucault avrebbe dovuto scrivere su Manet.
Dico “avrebbe”, debitore verso chi ha approfondito l’argomento, perché il volume del filosofo francese non è mai uscito in una veste editoriale, anche se ne rimane una prima e consistente traccia in alcune conferenze tenute tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta.
La mia citazione, tuttavia, possiede la sfacciata impudenza, tipica dei dilettanti, di andare oltre il puro gioco letterario.
La tesi che vorrei sostenere risiede nella natura stessa della pittura di Petrus, colta in due passaggi dai contorni piuttosto rarefatti.
Per spiegare il primo ho bisogno solo di condividere l’amore per l’architettura. «Amate l’architettura» scriveva Gio Ponti nel 1957 «per quel che di fantastico, avventuroso e solenne ha creato – ha inventato – con le sue forme astratte, allusive e figurative che incantano il nostro spirito e rapiscono il nostro pensiero, scenario e soccorso della nostra vita.»
E i dipinti di Petrus potrebbero rappresentare il sogno di ogni architetto, calato anche nelle polverose vesti filologiche del cultore di storia, che nelle pareti di un ideale “studiolo” trova frammenti degli edifici realizzati da Alvar Aalto a Helsinki, Le Corbusier a Marsiglia, Giovanni Muzio e Aldo Andreani a Milano, Emil Fahrenkamp a Berlino e altri riconosciuti capolavori, uniti in una sorta di coloratissimo atlante piranesiano dell’architettura contemporanea.
Ardono così, potrei dire, le inafferrabili ragioni del cuore, perché la furia del collezionista soddisfa i desideri di possesso delle icone sacre dell’odierna ars aedificatoria.
In questa prospettiva, la pittura di Petrus mi accompagna sui terreni della divina mimesi (azione espressa più precisamente dal vocabolo greco μιμησις, cioè “imitazione, rappresentazione”), che intendo nell’accezione aristotelica di “piacere del riconoscimento”. Né copia o ripetizione, né tantomeno duplicazione degli oggetti della vita, la vera mimesis provoca un riconoscimento da parte dello spettatore. Quest’ultimo, dunque, stimolato da un’imitazione analogico-creativa che arriva a produrre altro da ciò che imita: il “piacere del riconoscimento” risiede nell’atto di ridare vita al modello, come se fosse creato di nuovo.
Hans-Georg Gadamer ha magistralmente spiegato questo concetto: «Mimesis è la rappresentazione in cui ciò che viene ravvisato è solo il contenuto essenziale del rappresentato, ciò che ci sta dinanzi e che si conosce». Quindi, conclude il filosofo tedesco, «quando ricuperiamo questo significato originario della mimesis, veniamo liberati da quell’angustia estetica che la teoria classicistica dell’imitazione rappresenta per il pensiero. Mimesis allora non consisterà tanto nel fatto che qualcosa rinvii a qualcos’altro che sia il suo archetipo, bensì che qualcosa si manifesti in se stesso come significativo. Nessun criterio predeterminato di ciò che è conforme alla natura potrà perciò decidere del valore o della mancanza di valore di una rappresentazione, ma già ogni rappresentazione che sia significativa costituisce in sé una risposta alla domanda perché essa esiste, sia che rappresenti qualcosa oppure “nulla”. L’esperienza mimetica originaria rimane in tal senso l’essenza di ogni fare rappresentativo nell’arte e nella poesia».
Perciò, tra i montaggi architettonici di Petrus mi piace riconoscere i frammenti di una Milano moderna che mette in mostra le proprie bellezze, svelandone i più intimi segreti. Ho solo l’imbarazzo della scelta. Nella grande tela Dalle belle città 7 (2013) vedo l’ala interna dell’edificio di Luigi Moretti in corso Italia (1953) affacciata sull’angolo in cemento armato del grattacielo Pirelli (1960), incastellato sul palazzo INA in corso Sempione di Piero Bottoni (1958), a sua volta appoggiato sul tetto della Ca’ Brutta (1922) di Giovanni Muzio, affiancata alla torre Rasini (1935) di Emilio Lancia e Gio Ponti. Oppure, in una versione successiva della stessa serie (Dalle belle città 8, 2013), mi emoziona non poco quel sostegno della Torre Velasca (1958), opera simbolo del gruppo BBPR, che emerge come un relitto dal naufragio della tradizione moderna.
Invece, per il secondo e più ragionato passaggio, devo tornare a scomodare Foucault, laddove l’archeologo del sapere scopre l’essenza della pittura di Manet, rappresentata dal «quadro-oggetto, il quadro come materialità, il quadro come cosa colorata illuminata da una luce esterna e davanti al quale, o attorno al quale, si sposta lo spettatore».
Così guardo di nuovo, attraverso la lente paziente della successione temporale, le tele di Petrus e, di colpo, le architetture partecipano a un dinamico intreccio di superfici luminose.
Accade allora che la tessitura di mattoni klinker del Palazzo dell’Arte (inaugurato nel 1933) di Giovanni Muzio (Atlas 3, 2013) venga proiettata in diagonale con tonalità complementari fra loro, in una visione materica alla quale anche il cielo è chiamato a far parte.
Mentre il cielo di Marsiglia, quando il vento lo disegna di un azzurro intenso, da una parte (Atlas 4, 2013) punteggia ritmicamente i pannelli esterni delle cellule dell’Unité d’habitation (1952) di Le Corbusier, e dall’altra (Atlas 7, 2013) illumina i nodi strutturali della Tour du Méditerranée (1972) progettata dallo studio Atelier 9.
Resto a Marsiglia, fino al tramonto: il sole colora tutto di rosso e accende le curve metalliche della torre CMA CGM (2010), opera recente dello studio di Zaha Hadid, che si stendono sulla tela e acquietano le tensioni dello sforzo costruttivo (Atlas 1, 2013).
E a Berlino, lungo il Landwehrkanal, ondeggia il fronte bianco della Shell-Haus (1932) di Emil Fahrenkamp, rilevando inedite modanature nelle linee d’ombra portate dai profili marcapiano (Atlas 6, 2013).
Di fronte al flâneur che le osserva, le architetture di Petrus vibrano nelle masse stereometriche, ma non rinunciano ad amplificare la potenza espressiva del dettaglio svelato dalla luce.
Mi fermo, per esempio, da appassionato cultore delle diverse stagioni dell’architettura moderna milanese, davanti a palazzo Fidia in via Mozart (1932), uno dei prodotti della geniale matita di Aldo Andreani: sull’angolo, il gioco architettonico delle cornici curve e spezzate è interpretato nella densità luministica del colore, che dal bianco al nero passa per un’ampia gamma di grigi (Mozart 1 e Mozart 2, entrambi del 2013).Mi pare lo stesso tono di grigio del palazzo per uffici della Enso-Gutzeit (1962), progettato da Alvar Aalto nel porto di Helsinki, che nel dettaglio d’angolo isolato da Petrus racconta l’ombra fredda della luce del Nord (Helsinki, 2011).
Un grigio che si riscalda alla luce del golfo di Napoli, in un riquadro della facciata di marmo del Palazzo delle Poste (1936) disegnato da Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi (Napoli, 2010).
Giungo così all’apice di queste mie impressioni naïves in due tele, Traversi Blu e Traversi Rosso (2013), scelte tra le preferite: l’intonaco Terranova del Garage Traversi, pregiatissima testimonianza dell’architettura degli anni trenta, firmata da Giuseppe De Min (l’architetto della SNIA Viscosa), si accende e si spegne in toni ocra differenti nel contrasto con le aperture vetrate, illuminate al mattino e alla sera dal sole di Milano, sognato sempre a colori.
In questa sovranità della pittura, sostenuta dal “naufragio del soggetto”, domina il silenzio eloquente della luce e le architetture si smaterializzano, rivelando così inedite presenze geometriche.
Finalmente ho capito che cosa mi affascina dell’opera di Petrus: la mimesi dei capolavori dell’architettura moderna e contemporanea che trasfigura gli elementi della costruzione. Sotto le fonti luminose che il pittore lancia sulle tele, i muri e i pilastri, le porte e le finestre, i balconi e le terrazze, le strutture e le superfici, di mattoni, di vetro, di cemento armato e acciaio, disegnano astratte geometrie di un poetico paesaggio urbano.
Un’immobile e silenziosa città ideale, pronta a ricevere, da chi l’osserva, il soffio della vita.